Già dal 1990 il gruppo Parmalat non produceva utili. Nel dicembre del 2003 arriva il crac. Il tira e molla con i mercati andava avanti da almeno un anno. La società dichiarava una liquidità esorbitante eppure allo stesso tempo chiedeva finanziamenti al mercato, sotto forma di obbligazioni, per estinguere i debiti in essere e non per sviluppare le attività. La responsabilità del crac non va attribuita soltanto agli imprenditori. Le banche, pur conoscendo la strana situazione finanziaria della società, continuarono a piazzarne le obbligazioni, incrementando il credito verso il gruppo. Le società di revisione e di rating non evitarono né preannunciarono il disastro. Soltanto il comico Beppe Grillo denunciò la situazione, ma nessuno lo prese sul serio. Vittime del silenzio restano i tantissimi risparmiatori senza più i soldi accumulati in una vita. E la risposta della politica italiana? Praticamente inesistente. Né aumenti nei controlli, né aumenti nelle pene sul falso in bilancio. Una reazione opposta a quella della politica americana che, in seguito al crac Enron, approvò una legge sull’aumento delle pene per falso in bilancio e sulla creazione di un Authority per interventi specifici nel controllo dei bilanci societari. Il mancato intervento in Italia ha fatto sì che la situazione oggi non è affatto diversa da quella del 2003. Sono cambiati soltanto i soggetti protagonisti delle pagine di economia. L’ultimo è l’immobiliarista Danilo Coppola, accusato di riciclaggio di denaro e bancarotta. Si suppone abbia costituito una rete di società, gestite da persone di fiducia, allo scopo di ottenere finanziamenti dal mercato e di far circolare il denaro ottenuto da una società all’altra in modo da gonfiare il prezzo degli immobili. Prima di lui, un altro immobiliarista romano, il signor Ricucci, proprietario del gruppo Magiste, era stato arrestato con le accuse di aggiotaggio, false fatturazioni e occultamento di scritture contabili. L’imprenditore stava tentando di compiere operazioni illecite nel ricollocamento del pacchetto di quote Rcs in suo possesso. Due società fittizie facenti capo all’immobiliarista, contando sui finanziamenti delle banche, avrebbero dovuto acquistare azioni Rcs ad un prezzo più alto di quello effettivo, facendo così lievitare il valore del titolo. Ricucci avrebbe potuto ricollocare sul mercato il pacchetto in suo possesso ad un prezzo più alto. Il suo progetto, però, saltò a causa delle intercettazioni telefoniche. Per quanto ancora dobbiamo continuare ad affidarci soltanto al poter giudiziario?
Maria Carola Catalano


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