venerdì, dicembre 22, 2006
Homeless
La nostra inchiesta è finita. Dietro questi cinque minuti di video ci sono giorni di lavoro di gruppo ed emozioni difficili da spiegare. La soddisfazione finale ripaga quei giorni ma rimane una sensazione di impotenza.
“E se la vita non ha sogni…”
Viaggio in una realtà metropolitana dimenticata, nella vita di chi ha la strada come casa.
Clochard polacco, morto di stenti sul sagrato di una chiesa a Largo Cairoli. Per “cornice” una metropoli alle prese con lo shopping natalizio; nessuno si era accorto della morte di Zibi, sessantenne polacco che da dodici anni viveva per le strade della capitale, dopo aver perso moglie e due figlie in un incidente d’auto.
Questo è solo uno dei tanti “drammi”che ogni giorni si offrono agli onori della cronaca e che hanno come protagonisti chi come casa ha scelto la strada.
Vagabondi, senzatetto, barboni. Sono diversi i modi in cui le persone che vivono per strada vengono definite.
Dietro ogni vagabondo, si cela una storia, spesso crudele nella sua semplicità. Per persone in difficoltà, la mancanza di un sostegno può trasformare una vita normale in una vita da“nomade”. Passeggiando per le strade di Roma se ne possono incontrare a decine.
Li abbiamo avvicinati, fotografati, abbiamo parlato con loro e li abbiamo ascoltati mentre raccontavano le loro storie. Per lo più inosservati, invisibili, a volte derisi e guardati con disgusto, trascorrono le proprie giornate nei dintorni delle stazioni.
Ma chi sono? Come si finisce a mendicare un pezzo di pane? Ad arrangiarsi alla meno peggio in una capanna costruita sotto un viadotto stradale? E’difficile tracciarne un identikit, anche le notizie sulle loro storie di vita sono difficili da verificare.
Quello dei senza tetto è un mondo complesso: sono persone di età, itinerari e situazioni molto diverse. Quasi mai una scelta, la vita per strada è una vita faticosa e pericolosa, una quotidiana lotta per la sopravvivenza. Freddo, fame e solitudine sono spesso gli unici compagni di viaggio.
Quella dei senza tetto è una realtà sottomarina. Spesso dimenticati solo nella morte acquistano un nome e una storia da cui avevano tentato di fuggire.
Di pochi mesi fa è la notizia di un ex-professore di liceo che aveva deciso di lasciarsi alle spalle un passato doloroso; aveva rifiutato un ricovero temporaneo trovatogli dalla Sala Operativa Sociale, scegliendo la bottiglia per scaldarsi quando gli stracci di cui si copriva non bastavano più.
La crisi dello stato sociale dei paesi europei e il peggioramento delle condizioni economiche di aree già povere è ultimamente la causa dell’aumento del numero dei senza dimora: ben il 60% degli oltre 6000 senzatetto censiti a Roma è di origine straniera. Di loro si occupano la Caritas Diocesana, che gestisce cinque mense ed un ostello, la Comunità di S. Egidio e diverse associazioni di volontariato che offrono il proprio tempo per dare una mano, offrire un sorriso. Per loro i vagabondi non sono “invisibili”, ma persone da reinserire nel tessuto sociale.
Abbiamo trascorso una serata con loro per capire meglio questa realtà spesso ignorata. È una sera di inizio settimana. Fa freddo. I barboni fanno la fila per un panino e una bevanda calda, si riparano dietro quelle logore giacchette. Li chiamano senza fissa dimora. Forse perché è più “politically correct” ma qualsiasi nome fa pensare comunque alle figure dell’immaginario collettivo: cappotti giganti che strisciano a terra, barbe lunghissime, volti accerchiati dai segni della fame e della sporcizia, enormi buste dove dentro c’è tutta la spazzatura delle nostre metropoli: i soliti barboni accompagnati dai cani, randagi come loro. Vite ai margini che toccano, ogni tanto, la sensibilità delle nostre comode città.
Un esempio sono i ragazzi del gruppo auto-organizzato di cui fa parte, da circa tre anni, Silvia, studentessa di 24 anni. “Non siamo un’organizzazione bensì un gruppo di amici con una grande passione per il volontariato. All’inizio eravamo in pochi ma grazie a vari passaparola siamo arrivati a circa quarantamila, cosa che mi rende profondamente orgogliosa. Ci ritroviamo tutti i lunedì all’esterno della stazione Tiburtina”. Che cosa fate esattamente? “Ci sono famiglie che cucinano per noi e alcune caserme ci donano dei pasti, quindi la prima parte della serata consiste nella distribuzione del cibo. La seconda fase è la consegna dei vestiti ed infine la parte più importante della serata. Parlare. Perché prima di tutto queste persone hanno bisogno di sfogarsi. Il dialogo ha una valenza fondamentale soprattutto per gli stranieri in quanto serve loro anche ad apprendere la nostra lingua.”Chi sono e quanti sono i barboni di Roma? “Ci sono tante persone diverse con tante motivazioni. Ci sono gli italiani che conducono questo tipo di vita perché hanno una condizione sociale che non permette loro di reintegrarsi nella società e gli extracomunitari, sempre in aumento, che scappano da situazioni difficili dei loro paesi d’origine. Quanti sono? “Non si possono quantificare. A Roma si parla di circa 5mila senza fissa dimora. Ma ce ne sono di più: divisi tra gli ufficiali e quelli nascosti nelle vie più lontane. È un fenomeno che cresce rapidamente e in modo disomogeneo. E che comincia a colpire fette della popolazione che prima riuscivano a vivere sopra la soglia della povertà”.
Spesso si pensa al barbone come fosse un filosofo della vita, uno che ha scelto la piena libertà da ogni tipo di condizionamento, persino dalla famiglia e dalla casa. È davvero così? Lo chiediamo a Giacomo anche lui volontario da anni
a Tiburtina. “Ho difficoltà a parlare di scelta di vita per costoro. In tanti anni non ho conosciuto nessuno che avesse davvero scelto di stare sulla strada. Probabilmente in anni passati si poteva parlare di scelta, per rifiuto della società o di alcune sue caratteristiche, ma non oggi. È gente che non riesce a reinserirsi nel contesto sociale, né con il lavoro, né con la famiglia. Sono persone che hanno problemi: dal disagio psichico, all'alcolismo, alla tossicodipendenza, problemi familiari, come cause ed effetto. Noi arriviamo a 'cose fatte' e quindi è difficile risalire di lacerazione in lacerazione fino alla causa iniziale; c'è una concatenazione e ci sono degli eventi scatenanti che cadono su un terreno con problematiche che predispongono a crisi radicali. Emblematico è che le donne - meno del 15-20 per cento della popolazione 'barbona' - sono quasi tutte malate di mente. Per tutti la strada è molto violenta, per le donne ancor di più. Però ci sono remore, freni, reti di protezioni maggiori per le donne ed è difficile che finiscano sulla strada se non ci sono problemi radicali e devastanti”.
In Italia si calcola che le persone «senza casa» siano tra 150 mila e 220 mila. Circa 120 mila vivono in «alloggi impropri» (baracche, container, ripari di fortuna, grotte, ecc.); 60 mila (immigrati) sono in forme di coabitazione forzata; quasi 100 mila persone vivono in dormitori e 20-40 mila sono prive di qualsiasi riparo. L'età media sta scendendo ai livelli dei 35-40 anni, mentre si alza il livello di scolarità di queste persone; tra gli immigrati senza dimora ci sono molti laureati e diplomati.
L’attuale nomadismo urbano rappresenta un paradosso della società industriale nella quale la nuova povertà è costituita da persone che, probabilmente prima erano ragionieri, commercianti, camionisti, magazzinieri, operai ecc., in poche parole, "persone normali" che hanno perduto nel corso del tempo i legami sociali significativi e che forse non si sarebbero mai immaginate di arrivare a tal punto.
Piccoli o grandi drammi che hanno contribuito passo dopo passo a far intraprendere al soggetto una spirale senza fine, che comincia con l'annullamento dei legami familiari, poi con quelli amicali ed infine lo trovi a dormire sotto un cartone o in fila alla mensa per mangiare un pasto caldo.
Il senza tetto è colui che in campo di diritti da tutelare spesso non ha voce in capitolo, egli organizza la propria sopravvivenza intorno ad una società che di fatto tende sempre ad escluderlo. A volte sembra che nei confronti di questi soggetti l'indifferenza prenda il sopravvento, i “barboni” sono diventati soprammobili che non si notano più, fanno parte di un arredamento e la gente si accorge della loro esistenza solamente quando pensa che il tale dal corpo malconcio deturpa l'ambiente cittadino.
Durante la nostra serata alla stazione Tiburtina, ci avviciniamo e proviamo a parlare con loro, con i barboni. A volte è difficile perché sono intimoriti da registratore e macchina fotografica, altre volte è più semplice perché si mostrano disinvolti e quasi vanitosi di fronte a noi che vogliamo immortalarli.
Come Salvatore, che ci racconta la sua storia. Nato a Messina e abbandonato da piccolo, costretto a vivere per strada dopo aver cambiato molti lavori, vive ora all’ostello della Caritas e sta ancora pagando per i suoi errori passati. E qui, ci dice, ha trovato un po’di serenità e l’anno scorso anche l’amore, sposandosi con Carla, anche lei ospite dell’ostello Caritas.
Per superare l'isolamento e anche la cattiva informazione, sono in circolazione giornali scritti da gente del mondo della strada, con indirizzi utili, testimonianze e riflessioni. La rete di distribuzione è affidata a persone senza dimora che dalla vendita delle testate ricavano circa il 50 per cento del prezzo di copertina. Scarpe de' tenis (10 mila copie) e Terre di mezzo escono a Milano; a Bologna troviamo Piazza Grande.
Questo tipo di stampa è nato in Inghilterra: a Londra il settimanale The Big Issue, tira 100 mila copie con un'appendice in Scozia di 13 mila copie; e il mensile Change. In Francia ci sono diverse testate con un milione di lettori. In Germania la distribuzione è regionale con diverse caratteristiche: più sociali il Giornale dei senza tetto di Berlino, di denuncia contro la politica che produce povertà il mensile Biss di Monaco di Baviera; mentre Tizio e Caio di Amburgo si occupa dei problemi culturali della città (120 mila copie di tiratura).
La tradizione dei giornali di strada è forte negli Stati Uniti dove a New York esce addirittura un quotidiano dal titolo Street News, ideato da una catena di importanti case editrici nel novembre 1990.
L’iniziativa di questi giornali è molto significativa e dovrebbe farci riflettere su quanto sia importante parlare, accendere i riflettori su questa realtà troppo spesso “snobbata” per capire insieme quali potrebbero essere le soluzioni oltre a quelle umanitarie, per risolvere la “paura di vivere” e il disagio sociale che si cela dietro i senza-tetto.
Pubblicato su: tgcom
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